martedì 13 settembre 2011

APOLLO E DAFNE




G.L.Bernini: "Apollo e Dafne"
Un bellissimo racconto delle Metarmorfosi di Ovidio, è quello di Apollo e Dafne. La narrazione si apre con Apollo che schernisce Cupido per il suo aspetto da ragazzino e si vanta delle sue abilità di arciere. Cupido, adirato, estrae dalla faretra due freccie, una che attira e una che scaccia l'amore; con la prima trafigge il dio, con la seconda ferisce la ninfa Dafne, figlia del dio del fiume Penèo e vergine consacrata a Diana, dea della caccia.
Apollo, alla vista della ninfa, immediatamente se ne innamora e inizia, di nascosto, a contemplarla e a desiderarla.
Ovidio dipinge la scena con dei bellissimi versi, attraverso i quali la passione di Apollo ci viene descritta con l'immagine di un fuoco inarrestabile che divampa all'interno del suo corpo. Il dio osserva la ninfa da lontano, ammirandone le splendide fattezze e fantasticando su come apparirebbe questa se trascurasse meno il proprio aspetto (Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo, pensa: "Se poi li pettinasse"?)

E Febo (Apollo) l'ama; ha visto Dafne e vuole unirsi a lei,
e in ciò che vuole spera, ma i suoi presagi l'ingannano.
Come, mietute le spighe, bruciano in un soffio le stoppie,
come s'incendiano le siepi se per ventura un viandante
accosta troppo una torcia o la getta quando si fa luce,
così il dio prende fuoco, così in tutto il petto
divampa, e con la speranza nutre un impossibile amore.
Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo,
pensa: 'Se poi li pettinasse?'; guarda gli occhi che sfavillano
come stelle; guarda le labbra e mai si stanca
di guardarle; decanta le dita, le mani,
le braccia e la loro pelle in gran parte nuda;
e ciò che è nascosto, l'immagina migliore
.

Preso dal desiderio, Apollo si avvicina alla ninfa. Dafne, però, sotto l'effetto della freccia di Cupido e nel rispetto del suo voto di castità inizia a fuggire, veloce come il vento, senza prestare ascolto alle continue rassicurazioni del dio, il quale seguita a chiederle di fermarsi e di non aver paura di lui. E' interessante notare, leggendo i versi, l'irrazionalità del comportamento di Apollo: il tono di rassicurazione con cui inizia la sua preghiera viene infatti sostituito nei versi finali da quello intimidatorio con il quale fa presente alla ninfa di non essere uno "zotico" qualunque, bensì il "figlio di Giove".

«Ninfa penea, férmati, ti prego: non t'insegue un nemico;
férmati! Così davanti al lupo l'agnella, al leone la cerva,
all'aquila le colombe fuggono in un turbinio d'ali,
così tutte davanti al nemico; ma io t'inseguo per amore!
Ahimè, che tu non cada distesa, che i rovi non ti graffino
le gambe indifese, ch'io non sia causa del tuo male!
Impervi sono i luoghi dove voli: corri più piano, ti prego,
rallenta la tua fuga e anch'io t'inseguirò più piano.
Ma sappi a chi piaci. Non sono un montanaro,
non sono un pastore, io; non faccio la guardia a mandrie e greggi
come uno zotico. Non sai, impudente, non sai
chi fuggi, e per questo fuggi. Io regno sulla terra di Delfi,
di Claro e Tènedo, sulla regale Pàtara.
Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passato
e presente, colui che accorda il canto al suono della cetra.
Infallibile è la mia freccia, ma più infallibile della mia
è stata quella che m'ha ferito il cuore indifeso.
La medicina l'ho inventata io, e in tutto il mondo guaritore
mi chiamano, perché in mano mia è il potere delle erbe.

Ma, ahimè, non c'è erba che guarisca l'amore,
e l'arte che giova a tutti non giova al suo signore!»


Le disperate richieste di Apollo non vengono però ascoltate da Dafne, che prosegue nella fuga. il dio, quindi, stanco di doverla rincorrere, accelera il passo, fin quasi a raggiungerla. E' a questo punto che Dafne, terrorizzata, chiede l'intervento di suo padre Penèo, affinchè dissolva la bellezza e le forme che tanto avevano attratto Apollo, salvandola così da esso e preservando la sua castità.
E' così che, di colpo, il corpo di Dafne prende a mutare e si trasforma in una pianta di alloro, che mai prima d'ora s'era vista sulla terra e che diventerà sacra per Apollo.
Quest'ultimo, infatti, una volta terminato l'inseguimento, prende a baciarne il tronco e a stringerlo a sè come se si trattasse ancora del corpo dell'amata.

«Se non puoi essere la sposa mia,
sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno,
o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra;
e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante
intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei.
Fedelissimo custode della porta d'Augusto,
starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo.
E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa,
anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!»

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