martedì 6 settembre 2011

IL VIOLINISTA DI LONDRA (RACCONTO)

Ho scritto questo breve racconto ieri sera, ispirato dalla pioggia che batteva sulla strada e da una composizione di Niccolò Paganini che ho sentito per caso alla radio. Non ho potuto fare a meno di pensare, ascoltandola, a ciò che ho letto da qualche parte (credo nel libro "Canone Inverso" di P. Maurensig) sui violinisti e su come la posizione che assumono, piegando la testa di lato mentre suonano, assomigli a quella che assume Gesù sulla croce. Nonostante io non sia credente, trovo che la raffigurazione del crocifisso sia una delle più efficaci per rappresentare la sofferenza attraverso le immagini e che la musica del violino sia la migliore per esprimerla attraverso il suono. Da questa riflessione è nato il racconto che segue.
                                                                   
                                         
                                        IL VIOLINISTA DI LONDRA


Tra i tanti viaggi cui mi dedicai in gioventù, mai scorderò quello che mi portò, per la prima volta, a Londra. La vista della città suscitò in me, allora ventenne, una commistione di meraviglia e timore. Sebbene avessi trascorso gran parte dei mesi precedenti peregrinando per l'Europa con la sola compagnia del mio amore per la storia e della voglia di assorbire la cultura delle grandi civiltà respirando l'aria e calcando il suolo su cui avevano vissuto per ammirarne il lascito, appena vi misi piede rimasi ammaliato dalla magnificenza dei suoi palazzi e dalla moltitudine di gente che percorreva le strade. Nonostante lo spettacolo delle costruzioni e lo sfarzo delle carrozze che mi sfrecciavano a pochi metri, mi trovavo di fronte a un curioso groviglio di persone di varia estrazione sociale e avvertivo, nell'aria intrisa di umidità, un odore stantio simile a quello delle cantine. Agli angoli della strada, ovunque mi voltassi, era depositata parecchia sporcizia, segno dell'intensa attività umana che lì si svolgeva.
Camminai, da buon visitatore, per parecchio tempo, addentrandomi nei vicoli grigi e maleodoranti che conducevano verso il cuore della città, deciso ad ignorare i mendicanti stesi a terra a chiedere l'elemosina e le prostitute che, bisbigliando, cercavano di attirare la mia attenzione.
Fu allora che sentii provenire da lontano una musica, che da semplice suono di sottofondo si tramutò in una vera e propria presenza, catturando la mia attenzione.
Ne fui talmente attratto, tant'era melodiosa e aggraziata, che non potei far altro che lasciarmi guidare verso di essa, rapito come Ulisse quando udì il canto delle sirene.
Dopo qualche centinaia di metri, intravidi un gruppetto di persone immobili e capii che la fonte della musica che tanto mi aveva colpito si trovava proprio lì in mezzo. Mi unii alla folla e, sopraffatto dalla curiosità, mi spinsi sulle punte dei piedi, cercando di coglier con lo sguardo l'autore di tale capolavoro.
Indossava un logoro cappotto, sporco di fango e un cappello vecchio di anni gli riparava il capo, chino sul violino di mogano lucido. I pantaloni erano più larghi di almeno due taglie e gli coprivano gli stivali incrostati fin quasi alla punta.
Lo osservai accarezzare lo strumento con l'archetto, e notai che lo trattava con la delicatezza e l'amore di un amante; l'uomo, nonostante il viso pallido e la barba incolta, trasmetteva un senso di serenità e di distacco e dava l'impressione di trovarsi in totale solitudine, come se non percepisse null'altro che la musica, che sembrava scorrergli dentro e unirlo al violino in un legame indissolubile.
Incuriosito da questo strano personaggio, che indubbiamente si trattava del miglior violinista che mi fosse mai capitato di incontrare, mi avvicinai a un signore distinto, per chiedergli informazioni.
<<Chi è quell'uomo?>> chiesi a bassa voce.
L'anziano distolse lo sguardo dal musicista, mi fissò con un espressione perplessa e poi rispose:
<< Il suo nome è Gilmore >> rispose. Guardò ancora verso di lui, poi aggiunse, sottovoce << O forse, dovrei dire che lo fu.>>
<< Si spieghi meglio.>>  lo incitai, incuriosito.
<< Fino a un anno fa, era uno dei violinisti più apprezzati, qui a Londra. Viveva a pochi isolati da dove ci troviamo, in una bella casa; aveva perfino dei servitori. Poi, un giorno, sua moglie si ammalò e, poco tempo dopo,morì. Quella notte, Gilmore scese in strada e iniziò a suonare il violino, giorno e notte, fino ad oggi.>>
Annuii e volsi lo sguardo al suonatore, immergendomi nella profondità delle note che scaturivano dal violino. Era una musica indescrivibile, un misto di gioia e dolore, complessa nelle note eppure semplice al cuore, sconvolgente e perfetta nella sua bellezza. L'archetto sfiorava le corde sempre più veloce, in un appassionato crescendo che colmò la strada e congelò il tempo, lasciandoci dimentichi dello scorrer dei minuti. Gilmore proseguiva a suonare, sempre più in fretta, nonostante le gocce di sudore gli imperlassero il volto esausto.
Per quanto lo sforzo fosse intenso, un'evidente espressione di pace dominava il suo volto; ebbi l'impressione che, nel violino e nella musica che da esso scaturiva, Gilmore si rifugiasse, cercando un legame con l'eternità, lontano da questo mondo. Me lo immaginai, vestito con abiti eleganti, dedicar la sua musica all'amata. Mi domandai cosa fosse scattato, nella sua mente, alla morte di essa.
Poi, d'improvviso, un rumore assordante sostituì la melodia, e vidi una delle corde del violino schizzare via dallo strumento, simile a un legamento strappato.
Il silenzio piombò su tutti noi, che ci risvegliammo come da un sonno lungo decenni.
Gilmore alzò la testa e aprì gli occhi, fissandoci e accorgendosi solo allora della nostra presenza, poi sorrise e lasciò cadere il violino, che si infranse al suolo. Poi si accasciò, accanto ad esso.
Il gruppetto si dileguò in preda al panico mentre io rimasi immobile, frastornato.
Seppur titubante, mi avvicinai al corpo senza vita di Gilmore.
Sorrideva, con gli occhi aperti in un'espressione serena, quasi compiaciuta.
Nelle sue pupille, era impresso un volto di donna.

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